A Torino ci sono due squadre. Una ha praticamente vinto tutto, l’altra molto meno.
Come può un bambino, cresciuto all’ombra della Mole Antonelliana, tifare per la seconda? Probabilmente grazie allo storytelling che l’ha resa una leggenda.

C’era una volta uno squillo di tromba

Mi hanno raccontato del Grande Torino. Di Valentino Mazzola che si rimboccava le maniche e faceva partire il “quarto d’ora granata”. Del Filadelfia e del suo trombettiere. Della tragedia di Superga che proiettò un’intera squadra dai campi di calcio all’Olimpo degli eroi. E poi di Gigi Meroni, la farfalla granata, delle sue magie con il pallone tra i piedi e della sua stravaganza beat e ribelle nella vita.

Ho visto una traversa tremare

E poi anche io ho incominciato a far parte dei narratori. Ho vissuto di persona la conquista di uno scudetto. Ho applaudito i gemelli del gol, Pulici e Graziani, imbeccati da Claudio Sala che del gol era il poeta. Mi sono inorgoglito durante la partita epica contro il Borussia Mönchengladbach giocata in otto, per le espulsioni di due giocatori più il portiere, con in porta Graziani negli ultimi venti minuti. E ancora Mondonico che “alza la sedia” ad Amsterdam e la traversa di Sordo che sempre in quella Finale portò il Toro a un passo dalla conquista. E, in ultimo, la vittoria sull’Atletico Bilbao nel suo stadio fino ad allora inviolato da una squadra italiana.

Lo storytelling che ci fa dire “abbiamo”

“Abbiamo vinto.” “Abbiamo perso.” “Abbiamo giocato bene.” Lo dice ogni tifoso parlando della propria squadra. Lo dico io parlando del Toro. Lo storytelling crea senso di appartenenza. Ci fa sentire parte di qualcosa nella quale ci identifichiamo, della quale condividiamo i valori. Abbiamo voglia di condividere con altri la nostra esperienza. Ci rende partecipi di un rito collettivo.
E ogni volta che vedo scendere in campo la maglia del Toro non vedo solo undici calciatori che inseguono la vittoria ma “sento” tutta la sua storia, fatta di emozioni. Mi sento protagonista di una leggenda.

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