Tutti mi chiamano “l’Anestesista”. 25 incontri, 25 vittorie prima del limite. Il soprannome lo devo alla mia castagna micidiale, un gancio destro che parte dal niente, arriva dritto in pieno mento e accompagna nel buio il mio avversario.
L’unica parte di me che ha toccato il tappetto è la suola dei miei scarpini.
Eppure vincere mi mette ansia. Ogni volta che sto per salire sul ring guardo il pubblico intorno e mi assale il solito pensiero
“Questi non sono qui per vedermi vincere, ma per veder cadere la leggenda.”
Vogliono partecipare a un evento eccezionale.
Prendere botte, per me, è il meno. Non le sento neanche. Quello che sento sono gli occhi del pubblico, sì anche quelli davanti al televisore, che gonfiano i tricipiti dello sfidante raddoppiando la sua velocità, che rallentano le mie finte e le mie schivate.
Anche oggi ho paura davanti a questo sudamericano, che arriva dalle periferie arrabbiate della sua città, che non vuole saperne di andare giù.
Ho paura di dover ascoltare la voce rimbombante dell’arbitro che arriva in un batter d’occhio a 10.
Ho paura che stia tutto per finire.
Ho paura che dovrò imparare a perdere.
Ho paura che non farò più parte della leggenda.
E il mio gancio destro, all’improvviso, parte dal niente.